Approvata dalla Commissione europea la direttiva per combattere il greenwashing. Dal settembre ‘26 sarà vietata l’adozione di comunicazioni ingannevoli
Greenwashing è un neologismo della lingua inglese che generalmente viene tradotto come ‘ecologismo di facciata’ e indica la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente delle loro attività o prodotti.
A partire dal 27 settembre 2026, però l’adozione di comportamenti ingannevoli, in base alla nuova Direttiva UE 2024/825 sarà vietata. Il nuovo provvedimento europeo è volto a contrastare il marketing ambientale fuorviante, che presenta prodotti o processi come più rispettosi dell’ambiente di quanto siano effettivamente. Il recente provvedimento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue il 6 marzo 2024, introduce nel sistema legale dell’Unione Europea un elenco dettagliato di pratiche commerciali che gli Stati membri devono considerare “sempre sleali”, in quanto ingannevoli riguardo alle reali qualità ambientali dei beni o servizi promossi.
A seguito dell’entrata in vigore, le disposizioni non sono direttamente applicabili, ma rappresentano degli obiettivi che poi gli Stati membri attuano attraverso un atto legislativo interno (come è stato per la direttiva Omnibus recepita con il D.lgs che ha poi modificato il Codice del Consumo). Gli Stati hanno ora 24 mesi di tempo per recepirla.
Greenwashing, la nuova Direttiva tutela i consumatori
Il recente provvedimento costituisce una riformulazione della direttiva 2005/29/CE sulla tutela dei consumatori, la quale proibisce preventivamente le pratiche commerciali – azioni e omissioni mirate a promuovere un prodotto – considerate sleali. All’interno del concetto di pratiche commerciali sleali, la direttiva CE individua due categorie specifiche: le “ingannevoli“, capaci di indurre in errore i consumatori, e le “aggressive“, caratterizzate da pressioni illegittime sugli stessi. La neo direttiva ora interviene inserendo figure specifiche di greenwashing negli elenchi della direttiva CE, che identificano le tipologie più comuni di pratiche commerciali ingannevoli.
La black list europea contro il greenwashing
L’intervento di maggiore rilevanza della direttiva europea è l’aggiunta di specifiche pratiche commerciali “considerate in ogni caso sleali” sulla base di una presunzione legale. Prima di tutto, secondo la riformulata black list, sarà considerata condotta di greenwashing per presunzione legale “l’esibire un marchio di sostenibilità che non è basato su un sistema di certificazione o non è stabilito da autorità pubbliche“. Saranno vietati sia i marchi volontari non verificati da soggetti terzi e indipendenti, sia quelli non istituiti dall’Ue (come ad esempio l’Ecolabel) o dai singoli Stati membri (come il “Green made in Italy”).
Inoltre, sarà considerata pratica commerciale “in ogni caso sleale” il “formulare un’asserzione ambientale generica senza poter dimostrare l’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti”. Questo colpirà le dichiarazioni ambientali (diverse dai marchi) non chiaramente supportate attraverso lo stesso mezzo di comunicazione (come le generiche affermazioni “verde”, “ecologico”, “ecocompatibile”, “rispettoso dell’ambiente”) e i cui autori non saranno in grado di dimostrarne la conformità a sistemi di qualità ambientale riconosciuti ex lege.
Nuove regole per la riparabilità e la durata dei prodotti
Nell’ambito delle dichiarazioni ambientali, alcune pratiche sono universalmente riconosciute come sleali e ingannevoli. Tra queste, spicca l’atto di presentare un prodotto come riparabile, quando in realtà non lo è, sfruttando la crescente tendenza dei consumatori a preferire beni durevoli e facilmente riparabili. Allo stesso modo, è considerato disonesto indurre i consumatori a sostituire i materiali di consumo prima che sia effettivamente necessario, una pratica che non solo genera sprechi ma anche costi aggiuntivi per gli utenti.
Un altro esempio di tali pratiche sleali è la distorsione delle informazioni relative alla durabilità di un prodotto. Dichiarare falsamente o esagerare i termini di durabilità temporale di un bene può indurre il consumatore in errore, influenzando la sua decisione d’acquisto basata su aspettative non realistiche.
Infine, nell’era digitale, un tema particolarmente spinoso è quello degli aggiornamenti software. Promuovere tali aggiornamenti senza informare adeguatamente l’utente che questi potrebbero incidere negativamente sul funzionamento del bene è una pratica sleale che può compromettere la fiducia e l’esperienza dell’utente.