Per molte aziende i resi dell’e-commerce, soprattutto quelli gratuiti, sono diventati un vero e proprio problema, in particolare nell’abbigliamento fast fashion. La scelta di Amazon
Il fenomeno si chiama ‘bracketing’ ed è la tendenza di molti consumatori di comprare prodotti uguali o simili con la consapevolezza di poterne restituire uno o tutti quanti. I dati sono significativi: il valore globale dei resi online ammonta oggi a 550 miliardi di dollari (pari a 509 miliardi di euro), un costo che grava sul settore e che ha come diretta conseguenza danni ambientali. L’Europa si fa carico del 23% di questo valore (circa 126 miliardi di dollari), con numeri destinati ad aumentare; in Italia poi, secondo l’Osservatorio della startup Yocabè che supporta i marchi sui marketplace, si stima che sia il 16% del totale degli acquisti a tornare indietro. Un altro dato significativo che emerge dall’analisi di dati che ogni azienda paga in media 13 euro per ciascun pacco e che il 10% dei resi finisce in discarica.I tassi di reso al dettaglio sono in aumento del 63% su base annua. In Italia le categorie con la più alta percentuale di reso è l’abbigliamento (25,14%), seguito da scarpe (15,30%) e accessori (10,14%).
Come si stanno muovendo le aziende?
Alcuni marchi già da qualche tempo stanno cercando delle strategie che possano limitare gli acquisti compulsivi, applicando una tassa per il reso; tra questi H&M, che ha deciso di addebitare delle commissioni sui resi solo del suo e-shop. Poi Zara, che applica una commissione di 1,95 sterline (poco più di due euro) ai consumatori del Regno Unito, e che in Italia prevede invece per le restituzioni dal domicilio “un costo di 4,95 euro che verrà detratto dall’importo del rimborso”. Ci sono poi anche Uniqlo, Next e Boohoo, che non prevedono resi gratis nel proprio e-commerce, mentre Asos e Zalando hanno stabilito, già da diversi anni, un ordine minimo per poter beneficiare di opzioni di restituzione free.
Le aziende del fast fashion si rendono conto che in caso di reso, i costi logistici diventano doppi: la restituzione dell’articolo, l’ispezione, la rimessa a nuovo e il rifornimento, e potenzialmente anche la liquidazione o la rottamazione dell’articolo. Senza considerare i numerosi tentativi di frode nel reso, ovvero quello di chi indossa il capo per un evento, nascondendo ad esempio l’etichetta, per poi restituirlo una volta che l’indumento non risulti più necessario.
Tra le soluzioni messe in campo c’è quella di implementare le capacità della banca dati, anche tramite l’intelligenza artificiale, per valutare la singola richiesta di reso, analizzando cioè chi lo richiede, quali sono le sue motivazioni esaminando la “storia dei resi” di ogni cliente nel tempo. Ad esempio, nel caso di un cliente fedele con uno storico di richieste di reso in numero ragionevole e di restituzione del prodotto acquistato in buone condizioni si può agire in un modo, e nel caso di un acquirente che ha restituito una scatola vuota o una copia scadente dell’articolo originale in altro modo. Così si consentirebbe di gestire in modo differenziato la politica dei resi, in modo da disincentivare comportamenti che possono essere ritenuti dannosi per l’ambiente.
La scelta di Amazon
Amazon ha in questi giorni preso una decisione per molti rivoluzionaria. Il colosso dell’e-commerce ha infatti comunicato di voler accorciare il periodo di restituzione dei suoi prodotti che vanno in reso. Si passa dagli attuali 30 giorni a 14 giorni per i prodotti dell’elettronica di consumo. Fino a ora il reso era a lungo termine: un mese di tempo per restituire un articolo senza spese aggiuntive, a condizione che venissero rispettate alcune condizioni basilari, in particolare che l’oggetto fosse pari al nuovo. La nuova politica sui resi entrerà in vigore a partire dal 25 marzo 2024 e coinvolgerà anche il mercato italiano.
Il punto di vista di Aicel
Il presidente dell’Associazione italiana commercio elettronico, Andrea Spedale, è intervenuto sul tema dei resi gratuiti per fare chiarezza su un quadro normativo che non è cambiato. Lo è invece l’approccio dei colossi dell’e-commerce.
“Innanzi tutto, quello che emerge come un cambio delle regole è un cambio di passo da parte dei big player, nell’approccio ai resi gratuiti. La norma sul recesso è la stessa dal 2014 contenuta nel Codice del Consumo. È stata concepita sia per tutelare il consumatore, sia per evitare danni economici al sistema del commercio elettronico. Le spese sono ripartite tra venditore e acquirente. In caso di ripensamento, le spese ‘originarie’, quindi quelle necessarie alla corretta conclusione del contratto, rimangono a carico del venditore mentre quelle di reso possono essere addebitate al consumatore – sottolinea Spedale. – Con la normativa sui resi, il legislatore europeo ha voluto tutelare il consumatore nel caso in cui il prodotto acquistato non fosse corrispondente alle sue aspettative facilitando la conclusione della vendita grazie appunto a questa possibilità di ripensamento. La normativa tutela però anche il venditore, il quale può decidere come gestire l’eventuale reso tutelandosi a sua volta da acquisti compulsivi che gli arrecherebbero un danno economico consistente”.
Conclude il presidente di Aicel: “Ora il cambio di passo nella gestione dei resi con l’applicazione della norma anche da parte delle grandi piattaforme viene giustificato con l’attenzione alla sostenibilità e all’impatto ambientale. Probabilmente c’è anche un’altra verità: con l’entrata in vigore del Digital Markets Act i gatekeeper vedono cadere il loro grande vantaggio competitivo rappresentato dall’acquisizione e dall’accesso ai dati degli utenti per creare customer journey sempre più personalizzate. Perché di fatto il meccanismo dei resi gratuiti ha negli anni incrementato notevolmente le loro vendite, il numero di utenti registrati e di conseguenza la mole di dati. Oggi la direttiva promette più equità ed equilibrio tra tutti gli operatori nel mercato digitale. Così viene meno il vantaggio competitivo nel concedere i resi gratuiti da parte delle grandi piattaforme”.